L‘allarme ecologico continua a persistere, nonostante negli ultimi mesi se ne sia parlato sempre meno, la situazione non è certo migliorata, tutt’altro…
Nel periodo compreso tra i mesi di giugno e agosto sono stati portati avanti alcuni studi riguardo alla situazione nei vari oceani, i risultati non sono certo confortanti, come era facilmente immaginabile. In particolar modo ci riferiamo alle condizioni dell’Oceano Indiano.
Il riscaldamento globale rischia infatti di trasformare l’Oceano Indiano in un “deserto ecologico”, per usare proprio il termine esatto. L’allarme è stato lanciato in seguito a uno studio pubblicato sulla rivista Geophisical Research Letters, che sottolinea come la perdita di fitoplancton – alla base della catena alimentare marina – possa essere dovuta principalmente alle acque più calde.
A quanto emerge, tra gli oceani tropicali, l’Oceano Indiano settentrionale ospita una delle più grandi concentrazioni di fioriture estive di fitoplancton. La regione, però, è anche quella che nell’ultimo secolo ha registrato il maggior aumento della temperatura superficiale delle acque nella fascia tropicale. Un aumento di quasi due gradi, 1,8 per essere precisi “un’enormità, uno sbalzo termico che sta modificando la flora e la fauna dell’Oceano Indiano”, è così riportato all’interno di Geophisical Research Letters.
A causa di questo fenomeno, stando sempre agli esperti, negli ultimi sei decenni si è verificato “un calo allarmante del fitoplancton pari al 20%”. Il motivo, dicono i ricercatori, va trovato nella maggiore stratificazione degli oceani determinata dal riscaldamento delle acque, tutto questo blocca il mescolamento dei nutrienti sotto la superficie del mare. Le proiezioni climatiche future indicano che l’Oceano Indiano continuerà a scaldarsi e a perdere nuovamente fitoplancton, si ipotizza che entro i prossima venticinque anni la percentuale possa aumentare nuovamente fino a sfiorare il 30%. Numeri terribili, molto più di quanto possa sembrare, il rischio è che entro il 2100 “l’Oceano Indiano possa ridursi a un vero e proprio deserto ecologico”.
Paolo Bellosta